l’Opec ha raggiunto un accordo di principio su un taglio della produzione di circa 750 mila barili al giorno.
Grazie alle indiscrezioni trapelate pochi minuti prima della chiusura dei mercati, l’accordo ha spinto una crescita del prezzo del Brent del 6%: una buona notizia per tutti i produttori.
Sebbene l’esito suggerisca un cambiamento della politica saudita degli ultimi due anni – finalizzata a eliminare la concorrenza dell’olio di scisto nordamericano e ostacolare un ritorno iraniano sul mercato in seguito all’accordo sulle sanzioni – ci sono forti ragioni per dubitare di un ritorno del cartello a efficaci politiche di gestione.
Primo: nonostante la ritrovata efficacia nella comunicazione, non vi sono dettagli su come le quote di produzione saranno ripartite. Non c’è solo l’Iran da accontentare con eccezioni, ma anche Nigeria e Libia – che a causa dell’instabilità politica stanno producendo molto al di sotto della loro capacità. Dunque, da qui a novembre ci sono margini per l’emersione di nuove frizioni all’interno del cartello.
Secondo: gli effetti sui prezzi potrebbero essere in ogni caso di breve periodo. Gli inventari sono ai massimi storici ed è ragionevole credere che non consentiranno una stabilizzazione dei mercati almeno fino al 2018.
Terzo: un aumento dei prezzi sino a 40/50 dollari al barile rimetterebbe in gioco un grande numero di pozzi nei bacini di scisto degli Stati Uniti. A 40$/b, Chevron ha annunciato la possibile apertura di 1300 pozzi in Texas, mentre a 50$/b addirittura 4000 nuovi pozzi potrebbero entrare in produzione.
Insomma, gli Usa sono il nuovo swing producer. Questo dovrebbe anche sterilizzare i possibili effetti politici sulle presidenziali americane in caso l’Opec confermi l’accordo e ne definisca i dettagli a novembre.
Del resto, l’annuncio di sostanziali tagli agli stipendi pubblici in Arabia Saudita prima della riunione di Algeri segnalava la scarsa fiducia di Riyad sugli effetti di qualsiasi accordo.
fonte: LIMES – 29 settembre 2016